Il delitto di peculato è previsto e punito all’art. 314 c.p. Testualmente il presente articolo recita:
“Il pubblico ufficiale o l’incarico di pubblico servizio, che, avendo per ragioni del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi.
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quanto il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cose, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.”
Ritenuto dalla dottrina prevalente un reato plurioffensivo, la fattispecie di cui all’art. 314 c.p. lede non solo il regolare funzionamento e il prestigio della p.a., ma anche e soprattutto gli interessi patrimoniali di quest’ultima.
Trattasi di reato proprio dal momento che può essere commesso esclusivamente da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, nozioni espressamente previste dal Legislatore all’interno del nostro codice penale.
La condotta penalmente rilevante consiste nell’appropriazione di denaro o di altra cosa mobile altrui. Si ritiene configuri la condotta di appropriazione quel comportamento uti dominus dell’agente nei confronti della cosa, destinata a materializzarsi in atti incompatibili con il titolo per cui si possiede.
Presupposto della condotta di peculato è, inoltre, il possesso o la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui. Altro requisito per l’applicabilità dell’art. 314 c.p. è la ragione d’ufficio o di servizio per cui è richiesta la necessaria qualificazione del possesso della cosa fatta propria. La Corte di Cassazione non considera determinante la fonte che legittima la relazione del pubblico ufficiale con la res. Perciò il delitto di peculato sussisterà indipendentemente dalla circostanza che l’agente sia entrato nel possesso del bene nel rispetto delle disposizioni organizzative dell’ufficio ovvero mediante l’esercizio di fatto o arbitrario di funzioni, dovendosi escludere il delitto de quo solo quando esso sia meramente occasionale, ovvero dipendente da evento fortuito o legato al caso. (ex multis Cass. Pen. Sez. VI, 24 febbraio 2015, n. 18015)
Si richiede, infine, l’altruità della cosa oggetto del reato.
E’ un reato, il peculato, di natura istantanea che si realizza nel momento in cui si perfeziona l’appropriazione. Quanto all’elemento soggettivo, il delitto di peculato è pacificamente considerato un delitto a dolo generico. Controversa in ordine al comportamento volitivo è la rilevanza dell’errore: parte prevalente della dottrina ritiene che rilevi l’errore sulla legalità della nuova destinazione impressa alla cosa oggetto del fatto, sulla qualità della cosa mobile, sull’altruità, sul possesso, sulla ragione d’ufficio o servizio e sulla sussistenza della qualifica in capo all’agente.
Al comma II, dell’art. 314 c.p., il Legislatore ha previsto una particolare forma di peculato: “il peculato d’uso”, disponendo un mitigato trattamento sanzionatorio per quei fatti che, in ragione della mera temporaneità dell’appropriazione, appaiono meritevoli di una pena più mite.
L’uso momentaneo richiesto dalla norma deve essere di breve durata: e quindi deve essere episodico, occasionale e protratto per un tempo trascurabile. In merito, la giurisprudenza esige che l’utilizzo momentaneo della res pregiudichi comunque in modo apprezzabile i bene giuridici protetti, altrimenti non può considerarsi integrato il reato di peculato d’uso, per il difetto di concreta offensività.
In relazione ai rapporti con le altre fattispecie, non sempre agevole risulta la distinzione tra peculato e truffa aggravata ex art. 61, n. 9, c.p.: la differenza con la truffa consiste nel fatto che mentre il peculato presuppone che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, nel momento in cui pone in essere la condotta appropriativa, abbia già un potere materiale – possesso – o giuridico – disponibilità – sulla cosa mobile altrui; la truffa postula di regola un atto dispositivo della vittima che determina l’acquisizione in capo al soggetto attivo, di un’utilità patrimoniale che precedentemente si trovava al di fuori della sfera di disponibilità di quest’ultimo. Occorre, dunque, avere riguardo delle modalità di acquisizione del possesso. La truffa è integrata quando gli artifici o raggiri sono posti in essere per conseguire la disponibilità del denaro o della cosa mobile; il peculato, invece quando l’agente, avendo già tale disponibilità, utilizza artifici o i raggiri per occultare l’illecita appropriazione.
Quanto ai rapporti con la fattispecie di abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 c.p. la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in più occasione, ha evidenziato che: nel delitto di peculato, l’elemento oggettivo del reato è costituito dall’appropriazione; nella figura criminosa di abuso d’ufficio, la condotta consiste, invece, nell’uso indebito del bene a proprio vantaggio, senza tuttavia, che ciò comporti la perdita dello stesso e la conseguente lesione patrimoniale dell’avente diritto. (Cfr. Cass, Pen., Sez. VI, 2 marzo 2016, n. 12658) Invece, con riferimento al rapporto tra peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione, la Suprema Corte, con una recente pronuncia, la numero 14755 del 28 marzo 2021, ha affermato che è confutabile il concorso formale tra questi due reati, che si differenziano tra loro per il soggetto attivo, per l’interesse tutelato, per le modalità di aggressione al bene giuridico, per il momento della consumazione e per la condizione di disponibilità, prevista in relazione alla sola bancarotta.
In tempi recenti la Cassazione (Cass. Pen., Sez. IV, 14 gennaio 2019, n. 1561) si è pronunciata in ordine alla responsabilità del Presidente di un gruppo consiliare interno ad un Consiglio Regionale, imputato del delitto di peculato.
In particolare, le questioni controverse che hanno affrontato i giudici del Supremo Consesso hanno riguardato due profili:
1) il primo attinente all’inquadramento del presidente del gruppo consiliare nella qualifica di pubblico ufficiale, delineata ai sensi dell’art. 357 c.p.
2) il secondo, relativo alla condotta appropriativa, dubbia in un contesto, come quello in cui il soggetto agente ha una discrezionalità particolarmente ampia in ordine all’utilizzo delle risorse economiche spettanti ai gruppi consiliari.
In merito al primo aspetto, secondo la Cassazione il presidente di un gruppo consiliare riveste la qualifica di pubblico ufficiale poiché partecipa, nel suo ruolo, alle modalità progettuali e attuative della propria funzione legislativa regionale svolta, nonché alle diverse procedure di controllo dei vincoli di destinazione propri dei contributi erogati a favore del gruppo.
Ciò prescinde dalla natura pubblica o privata che si voglia attribuire al gruppo consigliare, non essendo esso, ad avviso del Collegio, fattore dirimente in ordine all’inquadramento o meno del relativo presidente come pubblico ufficiale; ciò soprattutto in virtù dell’accoglimento della teoria oggettiva che dà rilievo alle funzioni in concreto svolte dal soggetto.
La Corte di Cassazione si è poi soffermata sul concetto di condotta appropriativa: a fronte dell’utilizzo del denaro pubblico elargito ai gruppi consiliari per fare fronte alle proprie attività, non si potrà parlare di appropriazione – e, di conseguenza, di responsabilità a titolo di peculato – nel caso in cui tale denaro venga impiegato per soddisfare le finalità per le quali è stato corrisposto. La configurabilità di tale delitto si avrà solo allorchè possa dirsi che il soggetto beneficiario della contribuzione l’abbia destinata ad un utilizzo diverso e non compatibile con quello ragionevolmente riconducibile all’ambito delle attività che il gruppo svolge o può svolgere.